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“Siamo di fronte a un documento di indirizzo che forniamo alle amministrazioni a tutela di lavoratori e cittadini”, spiega il ministro della Pubblica Amministrazione, Fabiana Dadone, presentando la direttiva sullo smart working emanata per fronteggiare l’emergenza Coronavirus. 

“Stiamo mettendo in atto tutte le misure che servono a bilanciare l’imprescindibile esigenza di proteggere la salute e garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro con la necessità di mandare avanti la complessa macchina dello Stato e di assicurare i servizi essenziali, di cui il Paese ha comunque bisogno. 

Ma stiamo anche lavorando a una norma che possa dare piena protezione professionale ai dipendenti della PA che saranno costretti ad assentarsi per cause di forza maggiore”. 

La direttiva introduce alcune disposizioni in questa fase di emergenza in cui occorre limitare il più possibile ogni possibilità di contagio. 

In generale, la direttiva vuole incentivare il lavoro agile e aumentare la flessibilità soprattutto per i dipendenti delle PA affetti da patologie pregresse, che usano i trasporti pubblici o che hanno carichi familiari ulteriori connessi alle eventuali chiusure di asili e scuole dell’infanzia.

Indica, inoltre: 

  • preferenza a svolgere riunioni e convegni in modalità telematica
  • misure ad hoc per le prove concorsuali (distanza di sicurezza tra i candidati),
  • rafforzamento della pulizia e dell’aerazione dei locali di lavoro, 
  • maggiore dotazione di presidi di igiene e, soltanto per specifiche attività e laddove l’autorità sanitaria lo prescriva, di protezione individuale come mascherine e guanti monouso. 

Infine, la diffusione del decalogo di regole di comportamento utili alla sicurezza dei pubblici dipendenti e dell’utenza.

Una direttiva necessaria che cerca di andare incontro alla situazione italiana che vede ancora difficile l’applicazione dello smart working nella PA e nelle imprese private. 

I lavoratori dipendenti italiani potenzialmente occupabili in smart working sono 8 milioni 359mila. Se ad un terzo di questi fosse concessa la possibilità di lavorare saltuariamente o stabilmente in modalità “agile”, si raggiungerebbero i 2 milioni 758 mila. 

Una modalità di lavoro molto diffusa in Europa, ma ancora poco in Italia. Secondo i dati Eurostat nel 2018 l’11,6% dei lavoratori europei alle dipendenze di imprese o organizzazioni pubbliche praticava smart working. In Italia la percentuale si ferma al 2%.

Tra le iniziative messe a punto per contrastare la diffusione del Coronavirus, il nuovo Dpcm attuativo del decreto sul Coronavirus prevede l’estensione del ricorso al lavoro agile fino al 15 marzo nelle sei regioni coinvolte dal Coronavirus. 

Il Ministero del Lavoro in una nota spiega che lo smart working è «applicabile in via provvisoria fino al 15 marzo 2020, per i datori di lavoro aventi sede legale o operativa nelle regioni Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Veneto e Liguria, e per i lavoratori ivi residenti o domiciliati che svolgano attività lavorativa fuori da tali territori, a ogni rapporto di lavoro subordinato anche in assenza di accordi individuali». L’indicazione è contenuta nell’articolo 2 del decreto attuativo del decreto. Gli obblighi di informativa previsti dalla legge sono assolti in via telematica anche ricorrendo alla documentazione resa disponibile sul sito dell’INAIL.